Chiese Cremia

San Michele | San Vito | San Domenico | San Giovanni

Chiesa di S. Michele

La chiesa di S. Michele è sita in frazione Vignola. Citata in un manoscritto del 1456, reca la data 5 aprile 1577 scolpita sull’architrave del portale maggiore, ritenuta quella di elezione a parrocchiale, sebbene almeno dal 1551 potrebbe aver avuto tale funzione subentrando alla chiesa di S. Vito. Nel 1593 il vescovo Feliciano Ninguarda, durante la sua Visita Pastorale a Cremia, scrive: “… vi è un’altra bella chiesa dedicata a S.to Michele, quale per commodità è usata per parochia, quale altre volte era di un monasterio delle monache dell’ordine de’ humigliati”, dandoci notizia più antica relativa al Monastero in paese, del quale rimangono ancora tracce del convento nella casa parrocchiale che compongono un agglomerato racchiudente un piccolo cortile.                               Alcuni stemmi di famiglie locali sono sistemati sul fianco sinistro; ha facciata a capanna con portale preceduto da un pronao su due colonne e una lapide murata a lato documenta i restauri del 1933. La lunetta sovrastante il portale ha una pittura alquanto deteriorata e con evidenti rimaneggiamenti che mostra la Vergine e il Bambino tra i santi Vito e Domenico.

L’interno è a navata unica con cappelle settecentesche che si aprono lungo le pareti laterali, corredate da balaustre in marmo policromo; la pavimentazione, coeva, è in piote di Nero Varenna. Lungo la navata è disposta la Via Crucis nelle quattordici stazioni originali, tele del XVIII sec. di mano di Antonio Maria Caraccioli da Vercana, per la quale il pittore lasciò annotato il pagamento: ”Per una Via Crucis in tela fatta al Prevosto di Cremia, lire imp.168”.

Entrando dal lato sinistro troviamo il fonte battesimale con piedestallo in marmo grigio recante scolpita la data 1577 e vasca sovrastante datata 1533, offerta dai cremiesi emigrati a Genova. E’ discussa la possibilità dell’uso sacramentale anteriore alla elezione a parrocchiale, o del trasferimento della vasca dalla chiesa di S. Vito. Una pittura murale (probabile rifacimento del XX sec.) riporta l’iconografia classica del Battesimo di Gesù da parte del Battista.

Proseguendo, sulla parete una tela che raffigura le Anime purganti con l’intercessione alla Trinità dei santi Pietro Martire, Barbara e Rocco, testimonia la documentata cappella con altare dedicata a santa Barbara, non più esistente.

Fa seguito la cappella della Vergine del Rosario. Della prima metà del Settecento, è interamente decorata a stucchi ed affreschi con narrazione dei momenti più salienti della vita di Maria e di Gesù, a partire dalla Natività sulla parete destra, la Fuga in Egitto nel registro sinistro fino alla Gloria della Vergine sulla volta; sull’intradosso e nel sottarco sono dipinti i Misteri del Rosario in quindici formelle. La parete di fondo accoglie il simulacro della Madonna col Bambino riparato da una vetrinetta e ai lati le immagini di San Carlo Borromeo e santa Rosa da Lima. Una annotazione ottocentesca riporta:” Le pitture sono di Giulio Quaglio, di Laino. Nato nel 1668, morto nel 1751”. Evidenti sono i richiami ai soggetti analoghi dipinti: qui si fa cenno alle figure dei santi della parrocchiale di Stazzona, essendo gli altri paragoni con lavori nella regione Giulia ma, le pesanti ridipinture, fatte probabilmente da più mani come si evince dai registri inferiori rispetto alla volta e alle formelle, rendono alquanto arduo definirne la paternità in assenza di documenti.

Nella cappella successiva troviamo un Polittico quattrocentesco, opera pregevole proveniente dalla più antica chiesa di San Vito, così descritta da don santo Monti a fine ‘800:” … Non puossi lasciare inavvertito un altro quadro, appeso sopra la parte secondaria di entrata in chiesa… Egli è in sei spartiti, rappresentanti nel mezzo superiore una Pietà con ai lati due Angeli in adorazione, alla cui destra evvi S. Gerolamo, ed alla sinistra S. Domenico; nel mezzo dell’inferior sezione la B. V. col Bambino con pure un Angelo ad ambe le parti, ed a diritta S. Sebastiano e S. Rocco all’altra banda. Il dipinto è su tavola, e se ne vuole autore l’antico classico maestro Ambrogio da Fossano detto il Bergognone… Era già nella chiesa alla riva del lago, ed andava ognor più deperendo, obliato”. Restaurato nel 1864 grazie anche al concorso pecuniario del re Vittorio Emanuele, venne riportato in S. Michele. Il Monti così continua:” Ora la pala si trova nuovamente in stato di deperimento, essendo collocata sulla parete di tramontana della chiesa di S. Michele, alquanto umida…”. Nel 1955 il polittico venne nuovamente restaurato, ma la sua storia si complicò ancora perché venne rubato nel 1978. Ritrovato dopo poco tempo in un cascinale di Alzate Brianza, rabberciato e mancante di alcune parti lignee, fu nuovamente restaurato e dal 1979 lo vediamo com’è oggi, splendente negli ori del fondo, coi suoi colori vividi, seppur mutilo di alcune parti delle cimase e recante “a memoria” i buchi delle ferite inferte, come cicatrici.

Il successivo altare di Sant’Antonio Abate è corredato da una tela che lo raffigura del XVI sec.; è attribuita a bottega veneta, incorniciata da una bella ancona lignea dorata a tabernacolo, di probabile fattura ottocentesca.

Accediamo al presbiterio delimitato dalla balaustra in lastre di marmo nero e colonnette in marmo policromo. Di forma rettangolare, vede addossato alla parete di fondo l’altare maggiore, un manufatto in scagliola, opera dell’intelvese Gaetano Rava che lascia la sua firma e la data 1732; al centro del paliotto l’artigiano crea l’immagine del S.S. Sacramento e attorno decori a racemi e fiori che continuano lateralmente e si accompagnano agli alzati e al tabernacolo. La pala d’altare è una tela raffigurante l’Arcangelo Michele che trafigge Lucifero, dipinto che la tradizione vuole di mano di Paolo Caliari, il Veronese (1528 – 1588), impreziosito da una importante cornice dorata che reca sia i nomi dei donatori, Pier Tarra e Giorgio Fontana, sia la data d’esecuzione, 1586. Il quadro fu donato da Battista Pizzetti, ricco mercante di Cremia dimorante a Vicenza. Il Monti così riporta:” … Sorge l’Arcangelo e tra i suoi piedi sta atterrato Lucifero. Colla sinistra l’angelo buono, alquanto curvandosi, calca la testa del rubello, che si sforza di rilevarsi: colla tesa destra tiene alta la bilancia, suo distintivo. Guardalo con occhio il cui sereno non è alterato dall’ira, ovunque spira bellezza e forza. Ali di aquila ha il fianco tese, indosso corazza con gonna che per moto svolazza e vela parte delle cosce; manto sugli omeri, gambiere, e nel resto è ignudo; le chiome ondeggiano sciolte pel collo e sugli omeri, ornano la fronte e sono di una estrema finezza. Lucifero ha membra umane, volto mezzo tra la bestia e l’uomo, feroce e orrido, corna caprine in testa, mani e piedi unghiuti. Ha l’ali di pipistrello. Il contorno del quadro è sparso di nugoli, e il mezzo di un pallido chiarore, che pare prodotto da vulcani che sotto gettano grandi fiamme”. In assenza di documentazione specifica, in contrasto con la voce popolare, dagli studiosi sono stati fatti i nomi più disparati di pittori veneti. Pagamenti per lavori nel coro risalgono al 1745, probabilmente trattasi degli stalli in legno di noce messi alle pareti presbiteriali. Sulla parete sinistra leggiamo una tela di incerta datazione raffigurante la Salita al Calvario, che ricorda la caduta di Gesù sotto la croce mentre viene aiutato dal Cireneo e il dolore di Maria, sorretta dalle pie donne. Un bagliore sinistro fa da sfondo alle croci che si stagliano lontano sulla sommità del Calvario. Pregevole il dipinto che trova collocazione sull’altro lato, all’entrata in sacrestia: è l’Apparizione della Vergine a S. Gerolamo, tela di Antonio Petrini (1677-1759), donata da facoltosi cremiesi alla fine dell’Ottocento; di quest’opera risulta il pagamento nel 1703 al pittore nei registri parrocchiali di Delebio, da dove proviene. Il pittore mette molto vicine la figura della Vergine, trafitta al costato da una lunga freccia, a quella dell’eremita, raffigurato “alla maniera veneta”, cioè coperto solo nelle nudità intime, mentre sommessamente recita:” AVE MARIA”. Le parole sono scritte all’inverso ed escono dalle labbra del vecchio santo dirette alla Vergine che accoglie la preghiera. Anche in questa tela è evidente il carattere severo ed introspettivo della pittura del Petrini, lo schema compositivo semplice centrato sulle figure vestite da panni dalle pieghe cartacee resi con luci radenti e privo di contesto scenografico. Rifacimenti sia architettonici che pittorici risalgono al 1962; il progetto di restauro fu pagato all’intelvese Gaetano Corti, la conca absidale è dipinta in monocromo grigio a motivi geometrici e simboli sacri che continuano nelle lunette. Il pittore Cesarino Vincenzi di Bologna (1914-2010) fu l’autore della pittura a tempera sulla parete di fondo, un quieto paesaggio a tinte tenui, con una gran luce raggiata sulla sommità.

Sul lato destro, fuori dal presbiterio, si accompagna l’altare dedicato al Crocefisso incorniciato da colonne tortili reggenti una trabeazione arricchita con angioletti ed una coccarda, il tutto in stucco dipinto; l’altare è corredato da due belle statue lignee dipinte dell’Addolorata e di san Giovanni evangelista, non sempre esposte.

Il vano adiacente, ora chiuso, metteva in comunicazione il convento con la chiesa. Vi troviamo un lacerto pittorico pregevole, già ricordato come “la Madonna degli Umiliati”, che ricorda l’Incontro di Gesù carico della croce con la Madre e che per qualità stilistica si potrebbe asserire alla mano di Battista da Musso (1450 ca. – 1520 ca.).

Fa seguito la Cappella dedicata a San Giuseppe (già Cappella della Madonna). Due lapidi ivi murate ci raccontano qualcosa della sua storia: la prima dice che fu eretta nel 1560 a lode di Dio e della Vergine Maria da Ambrogio Torachino dei Marchetti di Cadreglio, la seconda ci dice che fu riedificata ed ornata nel 1703, ancora a lode di Dio e della V.M. e San Giuseppe, a spese di Domenico Torachino. L’altare è in scagliola e supporta lateralmente due colonne tortili e busti di telamoni che sorreggono volute in stucco con una nuvoletta affacciata da tre cherubini; questo impianto incornicia una tela coeva raffigurante il Transito di San Giuseppe, atto finale della vita del padre putativo di Gesù, che lo assiste insieme a sua madre. Un angelo porge la corona della gloria sul capo del morente e dall’alto, Dio padre apre le braccia per accoglierlo, attorniato da paffuti angioletti. L’altare è impreziosito da un paliotto ricamato con una Ultima Cena dipinta al centro. Gli stucchi incorniciano anche le pitture della cappella – storie della vita di san Giuseppe -, affreschi databili ai primi decenni della seconda metà del XVIII sec. ed attribuiti ad Antonio Maria Caraccioli da Vercana (1727 – 1801); i grandi riquadri laterali mostrano il prodigio della Fioritura del bastone, quando Giuseppe fu prescelto ad essere lo sposo di Maria e lo Sposalizio, sobria scena dove alla presenza del sommo sacerdote san Giuseppe mette l’anello al dito della Vergine; sull’archivolto vediamo il Sogno di Giuseppe, invitato dall’angelo a mantenere fede alla promessa a Maria, e una pacifica scena della Sacra famiglia a Nazareth, col Bambino Gesù già grandicello intento ad aiutare il padre.

La cappella di San Pietro era di patronato della famiglia Manzi il cui stemma è riprodotto sulla balaustra marmorea all’entrata. La pala d’altare è una bella tela cinque-secentesca, di cui non conosciamo ad oggi documentazione, che la tradizione vorrebbe dei fratelli Campi di Cremona e che raffigura la Consegna delle chiavi o Primato di Pietro. Un’ancona lignea la incornicia, arricchita da un inserto pittorico con i santi Sebastiano e Rocco immessi in una bella veduta. Il parroco don Pogliaghi ha lasciato una bella nota nella quale riporta:” …Rappresenta quasi al naturale il Redentore, che consegna con la destra a Pietro in riverente atto le simboliche chiavi, ed addita con l’indice della sinistra le pecore e le agnelle, che ai piedi van pascolando, ed allattando i teneri nati, e stan presenti altri Apostoli, o Discepoli…”. Sul lato destro della cappella è stato riposizionato nel XX sec., proveniente dal presbiterio, un tabernacolo in marmo bianco datato 1553, di gusto rinascimentale, che reca scolpito l’Ecce Homo nel timpano centinato ed angioletti attorno alla porticina. Un cartiglio inciso ricorda il donatore, Ambrogio Torachino dei Marchetti di Cadreglio.

L’ultima cappella sul lato destro è dedicata alla Vergine Addolorata; il suo simulacro è protetto in una teca dell’altare in marmo nero e policromo con cuspide coronata da angioletti in stucco. La pittura murale è costituita da quadrature colorite di fiori, fogliami, finte finestre che definiscono i Sette dolori patiti da Maria. In senso orario leggiamo: la Profezia di Simeone che ricorda l’incontro del Bambino portato al tempio. La scena è inscritta in un ovale e mostra Simeone con in braccio Gesù, Maria, Giuseppe ed Anna inginocchiati in primo piano in attesa dell’offerta del primogenito a Dio; sul pavimento, un coltello ricorda il sacrificio di Isacco; la Fuga in Egitto ricorda san Giuseppe col volto preoccupato mentre conduce l’asinello con in groppa Maria col bambino avvolto nel suo manto, in un accenno paesaggistico che suggerisce l’arrivo all’oasi; lo Smarrimento di Gesù dodicenne nel tempio, scena affollata di sapienti attorno al giovanetto che al centro, indica l’Altissimo; l’Incontro di Gesù con la madre lungo la salita al Calvario ricorda l’estremo saluto tra la madre piangente ed il figlio carico della croce, soli in una solitudine suggerita dal paesaggio spoglio e dalle lontane sagome montagnose; la Crocifissione e morte di Gesù nell’essenzialità delle tre croci, la centrale colpita da un raggio di luce, scena che fa intuire il silenzio della morte perché completamente disabitata; la Deposizione dalla croce, atto suggerito dalla presenza della Croce e di una lunga scala. L’Addolorata, con le mani giunte in grembo ed ai suoi piedi il Figlio esanime deposto sul sudario, evidenzia le ferite sulle mani e sul costato; la Sepoltura di Gesù, atto finale della vita terrena del Salvatore e pietoso gesto compiuto da Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea. L’autore delle scene è Antonio Maria Caraccioli da Vercana che in un suo manoscritto annotò: “Per un lavorerio fatto in due cappelle in Chiesa a Cremia, lire imp. 79”. Affiorano in questi piccoli affreschi i modi di Giulio Quaglio, pittore attivo nelle chiese di Vercana nel 1732, certamente guardato dal Caraccioli, allora bambino di cinque anni…

La decorazione della chiesa si completa sulla volta della navata presumibilmente per mano del quadraturista Achille Tagliaferri di Pagnona (1862-1934) nei primi decenni del XX sec.

L’organo è situato in controfacciata e compare tardi in chiesa; sono documentate una prima manifattura nel 1820 ad opera dei fratelli Serassi di Bergamo, una riparazione da parte dei fratelli Prina nel 1874 e il completo rifacimento nel 1956 da parte di Marco Abati di Figliaro. Purtroppo è da allora in disuso.