Il senso cristiano della morte

La morte, certamente, non è la fine di tutto, né è un salto verso l’ignoto o l’indefinito: vita mutatur, non tollitur, canta il Prefazio della Messa esequiale; tuttavia si sono perse per strada due coordinate fondamentali. La prima: subito dopo la nostra morte non c’è il Paradiso, ma il Giudizio particolare, dopo il quale si aprono davanti a noi, per così dire, tre vie: «Ogni uomo fin dal momento della sua morte riceve nella sua anima immortale la retribuzione eterna, in un giudizio particolare che mette la sua vita in rapporto a Cristo, per cui o passerà attraverso una purificazione, o entrerà immediatamente nella beatitudine del Cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre» (CCC, § 1022). Se si eccettua la morte di un bimbo piccolo battezzato, o quella di un martire, negli altri casi sarebbe presunzione pensare di non aver bisogno di purificazione. E proprio per suffragare le anime dei defunti in Purgatorio, la Chiesa, nella sua saggezza, ha sempre raccomandato di celebrare le Sante Messe per loro. La Messa esequiale, in die depositionis, è la più significativa, perché unisce la morte e sepoltura del defunto, alla morte e sepoltura di Cristo, presente sacramentalmente sull’altare. La Chiesa ha inoltre raccomandato di celebrare delle Sante Messe per l’anima del defunto in alcuni giorni particolari. Il terzo giorno dalla morte è quello in cui Cristo ha vinto la morte ed è proprio la partecipazione a questa vittoria che si domanda per il defunto; il settimo richiama il riposo – lo shabbat – di Dio, come fine della Creazione: così si offre il Santo Sacrificio affinché l’anima del defunto entri nel riposo eterno, che è Dio. Poi ancora le Messe di trigesimo, gli anniversari annuali, le Messe gregoriane. Tutto fa capire che il percorso di purificazione dopo la morte è qualcosa di reale, di doloroso, che necessita della preghiera dei viventi, e in particolare della potenza del sacrificio di Cristo.  Secondariamente, non si ricorda più che la morte è conseguenza del peccato e che, sebbene il pungiglione della morte sia stato reso inoffensivo da Cristo, essa non è ancora stata vinta: «L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte» (1Cor 15, 26). La morte infatti ha separato l’anima dal corpo e questa separazione perdurerà anche nella condizione di beatitudine in Cielo, fino a quando «sarà la fine, quando [Cristo] consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza» (1 Cor 15, 24). Allorché giungerà questa fine, il ritorno di Cristo nella gloria, allora i corpi risorgeranno e si uniranno alla gloria dell’anima. Ma fino ad allora, la morte lascerà in qualche modo il suo segno in quella separazione dell’anima dal corpo, che difatti viene sepolto in attesa della risurrezione. Per questa ragione il funerale deve avere i segni del lutto e della tristezza; non di quella tristezza disperata di chi non ha fede, ma della tristezza di chi piange le conseguenze del peccato sulla nostra povera umanità. La Messa esequiale assume allora una potenza di significazione insostituibile: le spoglie mortali presenti nel feretro sono il segno inequivocabile di questa dolorosa e innaturale separazione; ma nella Messa questa separazione viene unita a quella che avviene sacramentalmente, mediante la distinta consacrazione del pane e del vino, segno appunto della morte di Cristo, della separazione della sua Anima dal suo Corpo; e così il segno liturgico del frammento dell’Ostia santa lasciato cadere nel Sangue di Cristo, è il segno dell’attesa speranza della riunificazione del corpo del defunto con la sua anima. La Messa esequiale professa così la nostra fede nella risurrezione della carne e nella rigenerazione della Creazione.