L’impegno con la cappellania in ospedale e i tanti incontri tra i letti e i corridoi dei reparti. Così Lara racconta cosa vuol dire per lei questo gesto di carità
Mi è stato chiesto di raccontare la caritativa che, con alcuni amici, portiamo avanti in ospedale. Parto dall’inizio. Da circa tre anni faccio parte della cappellania dell’ospedale di Cremona: siamo un gruppo di persone che affiancano i sacerdoti cappellani nella loro missione. Il mio turno è la domenica mattina. Di solito il mio “giro” per incontrare i malati è nei reparti di chirurgia multi-specialistica e chirurgia generale. Due reparti “tosti”, dove la sofferenza è tanta. Avendo inoltre seguito il corso per diventare Ministro straordinario della Comunione, come alcuni altri della cappellania, porto anche l’Eucarestia agli ammalati.
Perché faccio la caritativa li? Prima di tutto, semplicemente, perché ho risposto ad una proposta che mi ha fatto don Marco Genzini, che è cappellano ed è un caro amico. A dire il vero non mi sento molto degna di portar Gesù agli ammalati e così, quando prima di recarci nei reparti ci ritroviamo in chiesa, mi viene spontaneo affidare tutto a Lui. Gli affido totalmente ognuna delle persone che incontrerò e ciascuna delle situazioni che potranno nascere da quell’incontro. Gli chiedo di farsi presente e di suggerirmi le parole giuste. E soprattutto di portare un po’ di letizia.
E poi si parte. In reparto si incontra tutta la bellezza della diversa umanità: nel credente, nell’ateo, in chi è di un’altra religione. Non è semplice a volte entrare nelle stanze di persone ammalate perché non sai davvero cosa incontrerai, non si conosce il quadro sanitario dei pazienti e, ancora più importante, in quale stato emotivo si trovano. Con alcuni si può parlare, con altri no. Come la volta in cui entrai in una stanza dove erano ricoverati tre uomini. Il primo paziente chiarisce subito che lui non vuole la Comunione e che non ne vuole sapere niente del Signore: come si fa a credere quando ti muore un figlio di 36 anni e anche la moglie? E tu a 67 anni sei ricoverato senza sapere ancora per cosa? Dopo questa esternazione, si chiude in un silenzio assoluto. Il suo dirimpettaio di letto risponde che il figlio che ha perso lui, di anni ne aveva 24. Chiede però l’Eucarestia e, dopo averla ricevuta, con gli occhi lucidi fa un saluto di commiato; anche lui non vuole parlare. Il terzo, dopo aver ascoltato i compagni di stanza, mi dice, senza farsi sentire dagli altri, che lui fa parte del movimento dei Carismatici e che il Signore vuole solo il nostro bene. E mi racconta un po’ della sua storia.
Visto il momento delicato, dico loro soltanto che preghiamo e che nella preghiera affidiamo le persone che non sono più con noi. Ecco, in realtà sono pochissime le persone che non ci accolgono. Pur non accostandosi all’Eucarestia, quasi tutti accettano volentieri di scambiare due chiacchiere. Spesso si parla della famiglia e della sua mancanza, oppure dell’aver dovuto lasciar improvvisamente il lavoro senza poter organizzare nulla. E si parla anche del “dopo”, cioè di come cambierà la vita quando si ritornerà a casa, in seguito ad interventi che talvolta limitano molto la libertà che si aveva prima.
Durante la Giornata d’inizio Anno ci è stata proposta la testimonianza di Hussam Abu Sini. Lui riportava più volte la frase «essere mandati da Qualcuno a qualcuno con qualcuno». La sento molto mia. Sono mandata dal Signore “a” qualcuno, e in particolare qui a chi è ricoverato in ospedale, a chi soffre, talvolta è solo, spesso è sfiduciato, fragile, debole… E sono mandata “con” qualcuno. Con gli amici della cappellania, di cui fanno parte, oltre a don Marco, anche don Maurizio e don Riccardo. E poi Marinella, Chiara, Paola, Marinela, Morena. Inoltre con loro, e a volte con altre cappellanie di altre realtà del cremonese, ci ritroviamo anche in momenti pensati per aiutarci ad educarci alla gratuità. Il “con qualcuno” è riferito anche al mio gruppetto di Fraternità, luogo privilegiato dove spesso racconto questa mia esperienza. E anche altri amici con cui condivido un cammino di fede.
Qualche tempo fa sono stata io l’ammalata. Ho provato sulla mia pelle l’esperienza di essere ricoverata in ospedale per alcuni giorni. E ho sperimentato di nuovo cosa vuol dire far parte di un’amicizia, cosa vuol dire essere oggetto di attenzioni ed essere voluti bene. E l’ho potuto vivere con gli amici della cappellania che ogni giorno venivano, da soli o insieme, a farmi compagnia. Mi sembrava un pellegrinaggio!
Tentando di andare al fondo di questa esperienza, credo di poter dire che fare caritativa è per me un restituire. Un restituire tutto quello che in questi anni ho ricevuto nel mio cammino nella Chiesa e nell’appartenenza a Cristo. Cosa significa concretamente restituire? Significa alzarsi alle sette del mattino di domenica per andare a trovare persone e fare compagnia a chi lo desidera, anche per pochi minuti. Persone che in quel momento sono sole. Lascio la mia famiglia per condividere qualche ora (ecco il restituire!) con chi è in un momento di prova. Faccio quotidianamente esperienza dell’essere amata da Dio, dell’essere preferita da Lui. E, coi miei poveri mezzi, provo a ri-donare qualcosa. Le storie sono tantissime.
Qualche tempo fa, per esempio, ho incontrato una signora di Ferrara, madre di tre figli, ricoverata da mesi. Quando mi presento, lei comincia a piangere. È preoccupata per i tre figli rimasti a casa, il più piccolo è affetto da autismo. Le chiedo timidamente se c’è un marito che la aiuta ma lei mi dice che praticamente sono separati di fatto, anche se rimane una certa collaborazione. Mi dice che ha mollato tutto perché non può decidere lei come il suo fisico reagisce alle cure. Non può più decidere niente. Dice che l’unica cosa che le rimane è la fede. Rimango colpita da questa frase perché mi riporta al fatto che io la famiglia ce l’ho e talvolta i figli o il marito mi fanno arrabbiare. Ma che Grazia essere a casa con loro! Entra il medico e la saluto velocemente per rientrare più tardi. Lei è appisolata, allora le dico semplicemente che la ricorderò nella Messa. E che domenica prossima mi fermerò di più. Mi fa un cenno di sì col capo.
Molti dei malati non vogliono la Comunione ma raccontano tutto. Se non subito, lo fanno nelle settimane successive (teniamo presente che in questi reparti qualcuno vive degenze anche di mesi). Nei periodi “forti” di Natale e Pasqua la mancanza della famiglia, per esempio del pranzo tutti insieme, è lancinante. In tanti rimangono colpiti dal fatto che siamo presenti anche in queste festività. E quindi solo la nostra presenza è già una testimonianza.
Walter è il marito di Mirella, che è morta qualche mese fa. Lui è solo. Non hanno figli. Lei andava sempre a messa la domenica e lui, non credente, l’accompagnava. Mi racconta parecchio della loro storia e di quanto si sono voluti bene. Ammette che la moglie ha vissuto la malattia in modo diverso da lui: lei non la subiva e aveva speranza in ciò che sarebbe accaduto dopo. Gli ho detto che è molto bello che lui abbia notato questa differenza. Dopo un po’ ci salutiamo ma, uscendo, lui mi chiama per nome e mi chiede: «Fino a quando ho tempo per ricredermi, per convertirmi? Perché di tempo credo di averne poco. Fino a quando Gesù mi aspetta?». Gli ho risposto: «Fino all’ultimo, proprio come il buon ladrone sulla croce». La domenica successiva non lo trovo più in reparto. Lo rivedrò qualche mese dopo, senza ormai forze per parlare. Mi fa un mezzo sorriso. Sono rimasta semplicemente accanto a lui a pregare.
Questa caritativa mi educa alla fedeltà del gesto. Naturalmente mi costa uscire di casa la domenica mattina presto, ma cerco di non mancare mai. E questo mi educa ad essere fedele nel quotidiano a ciò che mi è proposto di vivere. Qualsiasi cosa: un impegno di lavoro, una telefonata che devo fare e non rimandare. Mi educa a pregare in modo più preciso e assiduo per gli ammalati, soprattutto quelli che incontro la domenica, sentendomi in comunione con loro. E ricordandoli poi durante la messa, è più facile ricordare anche tutti gli amici e le persone che stanno vivendo momenti di difficoltà.
Ultima cosa, forse un po’ difficile da spiegare. Il contatto continuo con la malattia e la morte mi fa “lavorare” sul mio vivere e sul mio rapporto col Signore. La caritativa è prima di tutto per me. La certezza che tutto è per noi, anche la malattia, è una cosa che non posso mettermi a predicare a persone che non credono. Ma aiuta me, tantissimo, a stare davanti alla sofferenza avendo la certezza della vita eterna. Il continuare ad incontrare persone che improvvisamente si ammalano gravemente, scoprono di avere diagnosi difficili, oppure sono rimaste ferite in un incidente, mi insegna a non dare per scontata la vita, realmente siamo qui “di passaggio”. Ed è questa certezza che mi dona la letizia di cui dicevo e che sempre chiedo.
Lara, Cremona
articolo tratto dal sito www.clonline.org