Il malato grave ha diritto di sapere la verità

Esiste un vero e proprio obbligo di coscienza di avvertire il malato che sta per morire perché abbia il tempo di ricevere i sacramenti, di salutare i propri cari e riconciliarsi con essi (mentre oggi prevale la congiura del silenzio da parte di parenti e dottori)

di Giorgia Brambilla

La mia riflessione parte da un breve dialogo che ho avuto l’altro giorno all’INPS mentre facevo la fila con una signora che era lì per richiedere l’invalidità per il marito che purtroppo è affetto da una malattia molto grave e incurabile. Questa signora mi diceva che ancora non hanno detto la verità della situazione così grave del marito.
Allora ho pensato oggi di fare proprio una riflessione sul dilemma della comunicazione di diagnosi e prognosi al paziente molto grave perché il problema della verità al malato è un problema su cui la bioetica riflette.
Moltissime volte ci si trova di fronte a questo dilemma ovvero se sia giusto o meno comunicare la diagnosi al malato e in che modo farlo. Questo chiaramente coinvolge la dimensione del dolore che è una dimensione insita nell’identità stessa dell’uomo. È qualcosa che potremmo dire si prova ma che, al tempo stesso, mette alla prova. Questo conduce anche alla domanda di senso, all’elemento esistenziale (se Dio è buono, da dove viene il male?). Se è vero poi che nel dolore l’uomo fa un’esperienza profonda della sua umanità, è altrettanto vero che uno dei tratti più sconvolgenti della sofferenza è dato dal fatto che questa traccia un vero e proprio solco di divisione intorno a chi soffre.
La via del dolore consente all’uomo di rientrare in se stesso scoprendo la sua peculiarità individuale per il fatto che nessuno potrà sostituirsi a lui nel dolore. Il problema è che questa separazione però avviene non solo a livello individuale, ma anche per opera degli altri soprattutto con l’avvicinarsi della morte. Sandro Spinsanti chiama questa dimensione “La congiura del silenzio” ed effettivamente è proprio una vera e propria congiura quella che avviene. Infatti fino a poco tempo fa c’era un vero e proprio obbligo di coscienza di avvertire il malato che stava per morire proprio perché egli partecipasse all’evento cruciale di tutta la sua vita. E se ieri come oggi la morte faceva paura, la buona morte era qualcosa di importante tanto che la morte improvvisa era temuta e scongiurata e si pregava dicendo “a subitanea et improvvisa morte libera nos Domine” perché si riteneva fondamentale poter avere tempo per ricevere i sacramenti. E poi anche a livello umano per poter salutare i propri cari e riconciliarsi con qualcuno di essi.

IL TABÙ DEL TUMORE
Cosa avviene oggi? Prendiamo il caso del tabù del tumore, attorno al quale comunemente si pensa che sia meglio non nominarlo neppure. Vi sarà sicuramente capitato di sentire dire “Eh si… questo poverino” “Ma perché che cosa ha?” “Sai ha un male brutto…” cioè non si nomina il tumore! Quante persone oggi vengono davvero informate di quanto sta succedendo loro? Spesso si sceglie di escludere i diretti interessati dalle decisioni terapeutiche che li riguardano. Proprio questa, che appunto Spinsanti chiama “congiura del silenzio”, porta l’uno o l’altro familiare a vantarsi di aver saputo nascondere al morente la natura del suo male fino all’ultimo. Ma quanti malati terminali soffro nell’anima dolori più atroci di quelli del corpo perché non possono parlare con nessuno delle loro emozioni di fronte alla fine che sentono imminente?
Il compito di dare la notizia dell’imminente trapasso prima spettava al sacerdote che attraverso la somministrazione degli ultimi sacramenti aveva il compito di recare un vero e santo conforto. Oggi invece la chiamata al prete si rimanda il più possibile e si dice che questo è per non spaventare il malato. Così spesso il sacerdote arriva ormai quando la persona magari non è neanche più cosciente e questo chiaramente non va bene né dal punto di vista antropologico e meno che mai dal punto di vista spirituale.
Inoltre c’è anche il fatto che, a differenza ad esempio di altre culture, nella nostra l’individuo vive questo momento fondamentalmente isolato. La causa principale di questo è la scomparsa del modello familiare di tipo patriarcale, per cui in Italia si muore soli e in ospedale. Tra l’altro in ospedale non ci sono simboli religiosi od oggetti dei propri ricordi, ma ci sono solo sale asettiche in cui appunto in qualche modo sembra che la morte abbia perso la dimensione del lutto.
Infine va detto che a livello sociale c’è un oblio della morte che è strettamente legato a un oblio del senso della vita. Del resto se alla vita non si riconosce il significato che ha, come potrebbe averlo la morte?
La cosa paradossale è che nella nostra realtà culturale c’è un’ossessiva tendenza alla necrofilia, a una morte disumanizzata rappresentata solo nella sua violenta volgarità fino a una depersonalizzazione.

IL MORENTE È PRIMA DI TUTTO UN VIVENTE
Capiamo allora quanto è importante riflettere sul problema della verità da dire al malato. Spesso si dimentica in ambito medico che il morente è prima di tutto un vivente. È una persona ricca di emozioni, di desideri, di volontà. Per questo è importante fare in modo che al malato non manchi la verità circa il suo stato di salute. Va messo in luce che quello è un essere umano malato, ma vivente. Ha bisogno dire di essere ascoltato e di essere accompagnato. Allora anche di fronte a un malato che non possiamo guarire abbiamo una persona di cui prenderci cura emotivamente e anche spiritualmente. Comprendiamo che questo silenzio sulla malattia è controproducente e impedisce un’autentica relazione con il malato. Per non parlare del fatto che spesso è il malato stesso a rendersi conto da solo della sua condizione. Questa messa in scena che si svolge accanto a lui dove medici, infermieri e soprattutto parenti accumulano finzioni e ipocrisie, fa sentire la persona ancora più sola e triste.
Detto tutto ciò chiaramente non voglio dire che si debba dire tutta la verità senza prudenza, né carità. Ovviamente ogni affermazione, pur vera, va sempre comunque espressa e ponderata attraverso queste due virtù, ma quella che sicuramente dobbiamo evitare è la falsificazione sistematica della realtà.
Questa riflessione credo sia fondamentale per medici, infermieri e soprattutto parenti per modificare il modo di vivere il morire. Tutto questo misura il nostro amore per la vita e per l’essere umano.

Nota di BastaBugie: per i cattolici il codice di diritto canonico prescrive che il fedele che versa in pericolo di morte è soggetto all’obbligo di ricevere la Comunione come Viatico (can. 921 §1: “I fedeli che si trovano in pericolo di morte derivante da una causa qualsiasi, ricevano il conforto della sacra comunione come Viatico”). La causa del pericolo di morte può essere di qualunque genere: malattia, vecchiaia, intervento chirurgico pericoloso, guerra, epidemie mortali, ecc. Essere in “pericolo di morte” non vuol dire che il malato sia “in punto di morte” (articolo mortis), ma è sufficiente che la morte sia una minaccia probabile in tempi prossimi (invece “in punto di morte” si intende quando la morte seguirà in tempi rapidi).
I responsabili dell’infermo (familiari, personale sanitario, parroco, cappellano dell’ospedale) hanno il dovere, a norma del can. 922, a chiamare il sacerdote affinché l’infermo riceva il conforto religioso dei sacramenti (confessione, comunione, unzione degli infermi) nel pieno possesso delle sue facoltà.

 

Articolo di G. Brambilla preso dal sito www.bastabugie.it