Jean-Marc Aveline. A scuola di alterità.

Marsiglia è la seconda città di Francia. Dopo Marsiglia. Almeno così dicono loro, i marsigliesi. È noto l’esuberante orgoglio con cui gli abitanti dell’antica Massalia, – fondata, sei secoli prima di Cristo, da coloni della greca Focea – parlano della loro città e ciò nonostante (oppure proprio per questo) la gran parte di chi vive a Marsiglia abbia un pezzo della propria vita conficcato anche altrove, viste le oltre sessanta provenienze etniche che compongono la città. Il Cardinale alla guida dell’arcidiocesi si chiama Jean-Marc Aveline. Ama appassionatamente la città francese che l’ha accolto, lui pied-noir profugo dall’Algeria quando la nazione africana conquistò l’indipendenza. «Vede, la peculiarità della città di cui sono pastore è che si può essere marsigliesi senza essere francesi, o magari senza avere documenti d’identità, perché Marsiglia accoglie chi cerca rifugio. È una scuola di alterità».

Perché questo aspetto è così importante dal punto di vista della fede oggi?
Glielo spiego: Marsiglia è il “sud del nord” e io nella mia esistenza ho sperimentato che in generale il sud è meglio attrezzato a resistere al rullo compressore della secolarizzazione contemporanea. Le difficoltà della vita, le enormi avversità cui la gente del sud, in generale, è esposta, quasi costringono a considerare se stessi non come i padroni del destino, ad alzare lo sguardo verso l’alto, a non sentirsi autosufficienti, a comprendere più empaticamente i bisogni dell’altro, ad aprirsi, ad affidarsi. Prenda la mia famiglia, di origini umili. I miei genitori nel 1962 hanno patito l’esilio dalla terra dove erano ormai radicati da quattro generazioni. Hanno incontrato in Francia tantissimi problemi, hanno sofferto la morte di mia sorella Martine, io e l’altra sorella eravamo bisognosi di cure. Beh, la mia famiglia, dopo essere stata sballottata, come tanti, da una baracca all’altra in varie parti del Paese, ha trovato accoglienza sociale stabile proprio a Marsiglia. Ovviamente non voglio sottacere la questione climatica: al sole e nel calore di Marsiglia ci sentivamo più vicini alla nostra terra alle porte del Sahara…

Questo lei lo racconta nel suo libro da poco uscito Il dialogo della salvezza. Piccola teologia della missione (Libreria Editrice Vaticana), riflessioni teologiche accostate a numerose notazioni biografiche…
Sono assolutamente convinto che il pensiero di ciascuno sia fortemente intrecciato con la propria biografia. La vita è maestra, anche di teologia.

E che cosa le ha insegnato?
Ad esempio, che l’identità, il nucleo e la fisionomia di ciò che ci costituisce, quello che noi siamo, si costruisce solo dentro un rapporto vivo con l’alterità, con l’altro; un’identità chiusa, impermeabile, è sterile, mortifera.

È per questo che lei è così impegnato sul fronte del dialogo interreligioso?
No, è accaduto l’inverso. Su questo fronte, che mi assegnò a sorpresa il mio Vescovo di allora, monsignor Robert Coffy, ho potuto verificare la verità sperimentata nella mia vita: nel dialogo, nella familiarità, nell’apertura, nella condivisione, riusciamo a far fiorire la nostra identità e a incontrare più da vicino l’altro, e anche a essere missionari, che non vuol dire fare proselitismo. Occorre de-centrarsi per vivere la missione.

Una parte del suo libro è dedicata al rapporto con coloro che Giovanni Paolo II definì «i nostri fratelli maggiori». Oggi le ragioni storiche e teologiche del rapporto con gli ebrei paiono offuscate dall’attualità…
Bisogna riflettere che una delle prime questioni nella comunità cristiana, come leggiamo negli Atti degli Apostoli, è stata: i pagani per diventare cristiani devono passare per il giudaismo? Marcione, qualche tempo dopo, sosteneva di no, ma è stato fermamente condannato dalla Chiesa, e tuttavia al suo interno esiste ancora qualche vena di quel genere. Ma torno al tema che mi sta a cuore, l’identità si costruisce in un rapporto con chi è diverso da noi, non arroccandosi. La Chiesa, diceva Paolo VI nell’Ecclesiam Suam, si fa colloquio. E di nuovo mi sovviene il ricordo del luogo dove sono nato, l’Algeria. A quel tempo c’era una convivenza quotidiana tra cristiani, musulmani ed ebrei. Mia madre ogni sabato si occupava degli interruttori elettrici, del frigorifero, di tutte queste faccende pratiche di cui la famiglia ebraica che viveva nello stesso cortile non poteva occuparsi perché era shabbat.

articolo di T. Ricci preso dal sito it.clonline.org/