“Samaritanus bonus”: 4. Gli ostacoli culturali che oscurano il valore sacro di ogni vita umana

IV. Gli ostacoli culturali
che oscurano il valore sacro di ogni vita umana

Alcuni fattori oggigiorno limitano la capacità di cogliere il valore profondo e intrinseco di ogni vita umana: il primo è il riferimento a un uso equivoco del concetto di “morte degna” in rapporto con quello di “qualità della vita”. Emerge qui una prospettiva antropologica utilitaristica, che viene «legata prevalentemente alle possibilità economiche, al “benessere”, alla bellezza e al godimento della vita fisica, dimenticando altre dimensioni più profonde – relazionali, spirituali e religiose – dell’esistenza».[30] In virtù di questo principio, la vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità, secondo il giudizio del soggetto stesso o di terzi, in ordine alla presenza-assenza di determinate funzioni psichiche o fisiche, o spesso identificata anche con la sola presenza di un disagio psicologico. Secondo questo approccio, quando la qualità della vita appare povera, essa non merita di essere proseguita. Così, però, non si riconosce più che la vita umana ha un valore in sé stessa.

Un secondo ostacolo che oscura la percezione della sacralità della vita umana è una erronea comprensione della “compassione”[31]. Davanti a una sofferenza qualificata come “insopportabile”, si giustifica la fine della vita del paziente in nome della “compassione”. Per non soffrire è meglio morire: è l’eutanasia cosiddetta “compassionevole”. Sarebbe compassionevole aiutare il paziente a morire attraverso l’eutanasia o il suicidio assistito. In realtà, la compassione umana non consiste nel provocare la morte, ma nell’accogliere il malato, nel sostenerlo dentro le difficoltà, nell’offrirgli affetto, attenzione e i mezzi per alleviare la sofferenza.

Il terzo fattore che rende difficile riconoscere il valore della vita propria e altrui all’interno delle relazioni intersoggettive è un individualismo crescente, che induce a vedere gli altri come limite e minaccia alla propria libertà. Alla radice di un tale atteggiamento vi è «un neo-pelagianesimo per cui l’individuo, radicalmente autonomo, pretende di salvare sé stesso, senza riconoscere che egli dipende, nel più profondo del suo essere, da Dio e dagli altri […]. Un certo neo-gnosticismo, dal canto suo, presenta una salvezza meramente interiore, rinchiusa nel soggettivismo»[32], che auspica la liberazione della persona dai limiti del suo corpo, soprattutto quando fragile e ammalato.

L’individualismo, in particolare, è alla radice di quella che è considerata la malattia più latente del nostro tempo: la solitudine[33], tematizzata in alcuni contesti normativi perfino come “diritto alla solitudine”, a partire dall’autonomia della persona e dal “principio del permesso-consenso”: un permesso-consenso che, date determinate condizioni di malessere o di malattia, può estendersi fino alla scelta o meno di continuare a vivere. È lo stesso “diritto” che soggiace all’eutanasia e al suicidio assistito. L’idea di fondo è che quanti si trovano in una condizione di dipendenza e non possono essere assimilati alla perfetta autonomia e reciprocità, vengono di fatto accuditi in virtù di un favor. Il concetto di bene si riduce così ad essere il risultato di un accordo sociale: ciascuno riceve le cure e l’assistenza che l’autonomia o l’utile sociale ed economico rendono possibili o convenienti. Ne deriva così un impoverimento delle relazioni interpersonali, che divengono fragili, prive di carità soprannaturale, di quella solidarietà umana e di quel supporto sociale così necessari ad affrontare i momenti e le decisioni più difficili dell’esistenza.

Questo modo di pensare le relazioni umane e il significato del bene non può non intaccare il senso stesso della vita, rendendola facilmente manipolabile, anche attraverso leggi che legalizzano pratiche eutanasiche, procurando la morte dei malati. Queste azioni causano una grave insensibilità verso la cura della persona malata e deformano le relazioni. In tali circostanze, sorgono a volte dilemmi infondati sulla moralità di azioni che, in realtà, non sono che atti dovuti di semplice accudimento della persona, come idratare e alimentare un malato in stato di incoscienza senza prospettive di guarigione.

In tal senso, Papa Francesco ha parlato di «cultura dello scarto».[34] Le vittime di tale cultura sono proprio gli esseri umani più fragili, che rischiano di essere “scartati” da un ingranaggio che vuole essere efficiente a tutti i costi. Si tratta di un fenomeno culturale fortemente antisolidaristico, che Giovanni Paolo II qualificò come «cultura di morte» e che crea autentiche «strutture di peccato».[35] Esso può indurre a compiere azioni in sé sbagliate per il solo motivo di “sentirsi bene” nel compierle, generando confusione tra bene e male, laddove invece ogni vita personale possiede un valore unico ed irripetibile, sempre promettente e aperto alla trascendenza. In questa cultura dello scarto e della morte, l’eutanasia e il suicidio assistito appaiono come una soluzione erronea per risolvere i problemi relativi al paziente terminale.